Operazione Nebrodi, numeri e dettagli delle indagini di Carabinieri e Guardia di Finanza
Pubblicato su 15 Gennaio 2020
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Quarantotto persone in carcere, quarantasei ai domiciliari. Sequestro di 151 imprese, conti correnti, rapporti finanziari e varie fonti di reddito. Sono i numeri dell’Operazione Nebrodi, scattata alle prime luci dell’alba di oggi a seguito del provvedimento emesso dal Gip del Tribunale di Messina su richiesta della DDA. Impegnati oltre mille uomini tra Carabinieri e Militari della Guardia di Finanza.
I REATI CONTESTATI – Gli indagati dovranno rispondere, a vario titolo, dei reati di associazione per delinquere di stampo magioso, danneggiamento seguito da incendio, uso di sigilli e strumenti contraffatti, falsità materiale commessa da pubblico ufficiale in atto pubblico, falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale in atto pubblico, trasferimento fraudolento di valori, estorsione, truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubblichee impiego di denaro, beni ed utilità di provenienza illecita. Il comunicato diramato stamattina dalla Procura della Repubblica di Messina parla di “piena consapevolezza di trovarsi in una fase cautelare che solo attraverso il contraddittorio tra le parti e le decisioni di Giudici ulteriori e diversi rispetto al G.I.P, si trasformerà in una decisione definitiva in ordine alle responsabilità sino ad ora emerse”, ma afferma anche che “l’entità dell’azione investigativa svolta, le dimensioni necessariamente pubbliche dell’esecuzione della misura cautelare eseguita, le caratteristiche in termini di ricaduta economica e di fenomeni interessanti il territorio, impongono di dare succintamente conto del contenuto delle indagini sino ad ora svolte”.
DUE INDAGINI – L’operazione “Nbrodi” è frutto di due indagini diverse che la DDA di Messina ha affidato al G.I.C.O. della Guardia di Finanza di Messina e ai Carabinieri del R.O.S., del Comando Provinciale e del Comando Tutela Agroalimentare. L’indagine del R.O.S. ha consentito di ricostruire l’attuale assetto e operatività del clan dei Batanesi diretto da Sebastiano Bontempo (1969), Sebastiano Bontempo (1972), Sebastiano Conti Mica e Vincenzo Galati Giordano. Il filone d’indagine condotto dalla Guardia di Finanza si è concentrato su una costola del clan Bontempo – Scavo, capeggiata da Aurelio Salvatore Faranda che, dopo le vicissitudini giudiziarie, ha esteso il centro dei propri interessi fino all’area del Calatino.
EGEMONIA E DIALOGO – Elementi importanti sono emersi non solo riguardo all’area di operatività delle famiglie magiose, ma anche alla loro capacità di dialogare. Le indagini, rese particolarmente complesse dal contesto territoriale ostile ed ermetico, hanno tracciato l’immagine di un’associazione mafiosa molto attiva, osservante delle regole dell’ortodossia mafiosa, in posizione egemone sui Nebrodi messinesi. Un’associazione capace di rapportarsi con le articolazioni di Catania, Enna e anche con il mandamento delle Madonie di costa nostra palermitana. In questo ambito è emersa l’evoluzione dei Batanesi. Disponevano di una cellula a Centuripe, erano capaci di intervenire in dinamiche mafiose a Regalbuto e Catenanuova attraverso collegamenti con esponenti della locale criminalità organizzata. E la loro influenza giungeva fino al territorio di Montalbano Elicona, un tempo controllato dalla famiglia barcellonese. Sono inoltre emersi profili di allarmante riconoscimento del ruolo rivestivo da alcuni componenti anche da parte di pubblici ufficiali. Basti pensare che uno dei membri più attivi della famiglia mafiosa batanese è stato interpellato da un funzionario della Regione Siciliana in relazione a furti e danneggiamenti di un mezzo meccanico dell’amministrazione regionale, impiegato nell’esecuzione di taluni lavori in area territoriale diversa dal comprensorio di Tortorici. Questo a riprova di un forte radicamento della famiglia tortoriciana anche in zone distanti.
ESTORSIONI E TRUFFE ALL’AGEA – Ricostruiti numerosi episodi delittuosi riconducibili alle attività illecite tradizionali, quali due distinte associazioni finalizzate al traffico di stupefacenti ed estorsioni mirate soprattutto ad accaparrarsi terreni per poter accedere a contributi comunitari. E proprio in tal senso, ecco quella che si è rivelata la principale attività per l’organizzazione mafiosa, ovvero l’illecita percezione di ingenti contributi comunitari da parte dell’Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura. A partire dal 2013, sarebbero stati percepiti oltre dieci milioni di euro con il coinvolgimento di oltre 150 imprese agricole, tutte direttamente o indirettamente riconducibili alle due famiglie mafiose, alcune delle quali cartolari o inesistenti. Somme percepite in maniera fraudolenta grazie all’apporto di colletti identificati dalle indagini: ex collaboratori dell’ Ag.E.A., un notaio, numerosi responsabili dei centri di Assistenza Agricola. Soggetti muniti del know how necessario per realizzare l’infiltrazione della criminalità mafiosa nei meccanismi di erogazione di spesa pubblica e conoscitori dei limiti del sistema dei controlli.
IL SISTEMA – Un meccanismo fondato sulla spartizione virtuale del territorio per poter commettere un elevatissimo numero di truffe con rapporti anche con consorterie mafiose di altri province. Gli indagati hanno falsamente esibito, dal 2012 a oggi, la asserita titolarità, in capo a membri dell’associazione ovvero a “prestanomi”, di particelle di terreni in realtà riconducibili a persone o enti diversi dai richiedenti il contributo europeo. Esaminando le istanze (con contenuto falso) finalizzate ad ottenere i contributi, è emersa una suddivisione pianificata delle aree di influenza tra i sodalizi, finalizzata a scongiurare la duplicazione (o la moltiplicazione) di istanze diverse afferenti alle medesime particelle. Questo specifico aspetto investigativo è stato confermato attraverso intercettazioni e acquisizioni documentali, presso diversi Centri di Assistenza Agricola, dei fascicoli aziendali delle singole ditte/società attraverso le quali venivano perpetrate le truffe e mediante perquisizioni eseguite presso le abitazioni dei principali indagati e presso gli stessi Centri di Assistenza Agricola.
IL RUOLO DEI C.A.A. – Le indagini hanno fatto emergere come gli operatori dei Centri di Assistenza Agricola e gli appartenenti all’organizzazione mafiosa concordassero la predisposizione di falsa documentazione attestante la titolarità di terreni da inserire nelle domande di contribuzione, anche mediante l’utilizzo di timbri falsi; la cessazione delle ditte/aziende già utilizzate (mettendole in liquidazione); il trasferimento dei titoli autorizzativi da una società/ditta ad altre da utilizzare nel contesto dell’organizzazione; lo spostamento delle particelle dei terreni da una azienda a favore di altre riconducibili agli stessi sodali; la revoca dei mandati riferiti a precedenti Centri di Assistenza
Agricola a favore di altri e ciò al fine di rendere più difficile il reperimento della documentazione utile agli organi di controllo.
Agricola a favore di altri e ciò al fine di rendere più difficile il reperimento della documentazione utile agli organi di controllo.
PROFILO INTERNAZIONALE – Tra gli elementi di novità raccolti dall’indagine emerge in maniera significativa un profilo di carattere internazionale degli illeciti, commessi nell’interesse delle associazioni mafiose. In alcuni casi, infatti, le somme provento delle truffe sono state ricevute dai beneficiari su conti correnti aperti presso istituti di credito attivi all’estero e, poi, fatte rientrare in Italia attraverso complesse e vorticose movimentazioni economiche, finalizzate a fare perdere le tracce del denaro. Ciò a dimostrazione del fatto che l’ organizzazione mafiosa, grazie all’apporto di professionisti, dimostra di avere una fisionomia modernissima e dinamica, decisamente lontana dallo stereotipo della “mafia dei pascoli”: muovendo dal controllo dei terreni, forti di stretti legami parentali e omertà diffusa (e, quindi, difficilmente permeabili al fenomeno delle collaborazioni con la giustizia), essa mira all’accaparramento di utili, infiltrandosi in settori strategici dell’economia legale, depredandolo di ingentissime risorse, nella studiata consapevolezza che le condotte fraudolente, aventi ad oggetto i contributi comunitari – praticate su larga scala e difficilmente investigabili in modo unitario e sistematico – presentino bassi rischi giudiziari, a fronte di elevatissimi profitti. Quarantotto persone in carcere, quarantasei ai domiciliari. Sequestro di 151 imprese, conti correnti, rapporti finanziari e varie fonti di reddito. Sono i numeri dell’Operazione Nebrodi, scattata alle prime luci dell’alba di oggi a seguito del provvedimento emesso dal Gip del Tribunale di Messina su richiesta della DDA. Impegnati oltre mille uomini tra Carabinieri e Militari della Guardia di Finanza.
I REATI CONTESTATI – Gli indagati dovranno rispondere, a vario titolo, dei reati di associazione per delinquere di stampo magioso, danneggiamento seguito da incendio, uso di sigilli e strumenti contraffatti, falsità materiale commessa da pubblico ufficiale in atto pubblico, falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale in atto pubblico, trasferimento fraudolento di valori, estorsione, truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubblichee impiego di denaro, beni ed utilità di provenienza illecita. Il comunicato diramato stamattina dalla Procura della Repubblica di Messina parla di “piena consapevolezza di trovarsi in una fase cautelare che solo attraverso il contraddittorio tra le parti e le decisioni di Giudici ulteriori e diversi rispetto al G.I.P, si trasformerà in una decisione definitiva in ordine alle responsabilità sino ad ora emerse”, ma afferma anche che “l’entità dell’azione investigativa svolta, le dimensioni necessariamente pubbliche dell’esecuzione della misura cautelare eseguita, le caratteristiche in termini di ricaduta economica e di fenomeni interessanti il territorio, impongono di dare succintamente conto del contenuto delle indagini sino ad ora svolte”.
DUE INDAGINI – L’operazione “Nbrodi” è frutto di due indagini diverse che la DDA di Messina ha affidato al G.I.C.O. della Guardia di Finanza di Messina e ai Carabinieri del R.O.S., del Comando Provinciale e del Comando Tutela Agroalimentare. L’indagine del R.O.S. ha consentito di ricostruire l’attuale assetto e operatività del clan dei Batanesi diretto da Sebastiano Bontempo (1969), Sebastiano Bontempo (1972), Sebastiano Conti Mica e Vincenzo Galati Giordano. Il filone d’indagine condotto dalla Guardia di Finanza si è concentrato su una costola del clan Bontempo – Scavo, capeggiata da Aurelio Salvatore Faranda che, dopo le vicissitudini giudiziarie, ha esteso il centro dei propri interessi fino all’area del Calatino.
EGEMONIA E CAPACITA’ DI DIALOGO – Elementi importanti sono emersi non solo riguardo all’area di operatività delle famiglie magiose, ma anche alla loro capacità di dialogare. Le indagini, rese particolarmente complesse dal contesto territoriale ostile ed ermetico, hanno tracciato l’immagine di un’associazione mafiosa molto attiva, osservante delle regole dell’ortodossia mafiosa, in posizione egemone sui Nebrodi messinesi. Un’associazione capace di rapportarsi con le articolazioni di Catania, Enna e anche con il mandamento delle Madonie di costa nostra palermitana. In questo ambito è emersa l’evoluzione dei Batanesi. Disponevano di una cellula a Centuripe, erano capaci di intervenire in dinamiche mafiose a Regalbuto e Catenanuova attraverso collegamenti con esponenti della locale criminalità organizzata. E la loro influenza giungeva fino al territorio di Montalbano Elicona, un tempo controllato dalla famiglia barcellonese. Sono inoltre emersi profili di allarmante riconoscimento del ruolo rivestivo da alcuni componenti anche da parte di pubblici ufficiali. Basti pensare che uno dei membri più attivi della famiglia mafiosa batanese è stato interpellato da un funzionario della Regione Siciliana in relazione a furti e danneggiamenti di un mezzo meccanico dell’amministrazione regionale, impiegato nell’esecuzione di taluni lavori in area territoriale diversa dal comprensorio di Tortorici. Questo a riprova di un forte radicamento della famiglia tortoriciana anche in zone distanti.
ESTORSIONI E TRUFFE ALL’AGEA – Ricostruiti numerosi episodi delittuosi riconducibili alle attività illecite tradizionali, quali due distinte associazioni finalizzate al traffico di stupefacenti ed estorsioni mirate soprattutto ad accaparrarsi terreni per poter accedere a contributi comunitari. E proprio in tal senso, ecco quella che si è rivelata la principale attività per l’organizzazione mafiosa, ovvero l’illecita percezione di ingenti contributi comunitari da parte dell’Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura. A partire dal 2013, sarebbero stati percepiti oltre dieci milioni di euro con il coinvolgimento di oltre 150 imprese agricole, tutte direttamente o indirettamente riconducibili alle due famiglie mafiose, alcune delle quali cartolari o inesistenti. Somme percepite in maniera fraudolenta grazie all’apporto di colletti identificati dalle indagini: ex collaboratori dell’ Ag.E.A., un notaio, numerosi responsabili dei centri di Assistenza Agricola. Soggetti muniti del know how necessario per realizzare l’infiltrazione della criminalità mafiosa nei meccanismi di erogazione di spesa pubblica e conoscitori dei limiti del sistema dei controlli.
IL SISTEMA – Un meccanismo fondato sulla spartizione virtuale del territorio per poter commettere un elevatissimo numero di truffe con rapporti anche con consorterie mafiose di altri province. Gli indagati hanno falsamente esibito, dal 2012 a oggi, la asserita titolarità, in capo a membri dell’associazione ovvero a “prestanomi”, di particelle di terreni in realtà riconducibili a persone o enti diversi dai richiedenti il contributo europeo. Esaminando le istanze (con contenuto falso) finalizzate ad ottenere i contributi, è emersa una suddivisione pianificata delle aree di influenza tra i sodalizi, finalizzata a scongiurare la duplicazione (o la moltiplicazione) di istanze diverse afferenti alle medesime particelle. Questo specifico aspetto investigativo è stato confermato attraverso intercettazioni e acquisizioni documentali, presso diversi Centri di Assistenza Agricola, dei fascicoli aziendali delle singole ditte/società attraverso le quali venivano perpetrate le truffe e mediante perquisizioni eseguite presso le abitazioni dei principali indagati e presso gli stessi Centri di Assistenza Agricola.
IL RUOLO DEI C.A.A. – Le indagini hanno fatto emergere come gli operatori dei Centri di Assistenza Agricola e gli appartenenti all’organizzazione mafiosa concordassero la predisposizione di falsa documentazione attestante la titolarità di terreni da inserire nelle domande di contribuzione, anche mediante l’utilizzo di timbri falsi; la cessazione delle ditte/aziende già utilizzate (mettendole in liquidazione); il trasferimento dei titoli autorizzativi da una società/ditta ad altre da utilizzare nel contesto dell’organizzazione; lo spostamento delle particelle dei terreni da una azienda a favore di altre riconducibili agli stessi sodali; la revoca dei mandati riferiti a precedenti Centri di Assistenza
Agricola a favore di altri e ciò al fine di rendere più difficile il reperimento della documentazione utile agli organi di controllo.
Agricola a favore di altri e ciò al fine di rendere più difficile il reperimento della documentazione utile agli organi di controllo.
PROFILO INTERNAZIONALE – Tra gli elementi di novità raccolti dall’indagine emerge in maniera significativa un profilo di carattere internazionale degli illeciti, commessi nell’interesse delle associazioni mafiose. In alcuni casi, infatti, le somme provento delle truffe sono state ricevute dai beneficiari su conti correnti aperti presso istituti di credito attivi all’estero e, poi, fatte rientrare in Italia attraverso complesse e vorticose movimentazioni economiche, finalizzate a fare perdere le tracce del denaro. Ciò a dimostrazione del fatto che l’ organizzazione mafiosa, grazie all’apporto di professionisti, dimostra di avere una fisionomia modernissima e dinamica, decisamente lontana dallo stereotipo della “mafia dei pascoli”: muovendo dal controllo dei terreni, forti di stretti legami parentali e omertà diffusa (e, quindi, difficilmente permeabili al fenomeno delle collaborazioni con la giustizia), essa mira all’accaparramento di utili, infiltrandosi in settori strategici dell’economia legale, depredandolo di ingentissime risorse, nella studiata consapevolezza che le condotte fraudolente, aventi ad oggetto i contributi comunitari – praticate su larga scala e difficilmente investigabili in modo unitario e sistematico – presentino bassi rischi giudiziari, a fronte di elevatissimi profitti.
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